Vermicino, L'Italia nel pozzo
Intervista all'autore del libro in cui si ricostruisce la tragedia che, tra compassione e voyeurismo, incolḷ l'intero Paese davanti alla tv
di Anna Petrazzuolo
Vermicino, Roma, giugno 1981. Fino ad allora solo un pezzo di campagna, un luogo che non esiste. Se non fosse che quel bambino in canottiera si chiama Alfredo Rampi. Se non fosse che quella creatura diventerà per tutti «Alfredino».
Inizia così Vermicino, l’Italia nel pozzo, cronaca intensa e puntuale di uno degli episodi più tragici della nostra storia recente. Autore del libro, edito da Sperling & Kupfer, è il giornalista Massimo Gamba.
Come nasce l’idea di un libro su Vermicino?
L’idea non è mia. Me l’ha proposta il mio amico Luca Telese, curatore per Sperling & Kupfer della collana “Le radici del presente”.
Quali sono state le reazioni dei familiari? Lo hanno letto in anteprima?
Devo dire che io non ho potuto contattare i familiari. Da circa quindici anni loro non parlano più con nessuno di questo fatto. Ho cercato di mettermi in contatto con loro attraverso il Centro Alfredo Rampi, l’associazione fondata e diretta dalla madre, ma senza successo.
Quanto tempo ha richiesto lo studio delle fonti e del materiale documentario?
In un paio di mesi ho raccolto tutta la documentazione esistente: quotidiani e riviste dell’epoca, il materiale video della lunga diretta, i pochi libri e documentari sull’argomento, il materiale sparso su internet. Per il resto ho avuto il vantaggio di vivere a Roma, la città in cui risiedono ancora oggi quasi tutti i protagonisti di quella vicenda, le circa trenta persone che ho intervistato e che mi hanno fornito molte delle informazioni contenute nel libro, alcune delle quali originali e inedite.
Nelle parole di Leonardo Sciascia che compaiono in forma di epigrafe, è espressa tutta l’angoscia per una tragedia che ebbe del paradossale (“Si può andare sulla luna, ma non si può salvare un bambino caduto in un pozzo.”). Nel ricostruire i fatti, il libro mette in luce l’arretratezza dei nostri mezzi tecnologici di allora. Addirittura nel nostro Paese non era ancora stata istituita la Protezione civile, se non sulla carta.
È uno degli aspetti più interessanti di quella storia e le parole di Sciascia lo condensano bene. Credo che Vermicino rappresenti una sorta di cerniera tra l’arretratezza e la modernità che allora convivevano nel nostro Paese. In quell’operazione c’è stato un grande dispiegamento di tecnologie, dalle più rudimentali alle più imponenti, ma la grande disorganizzazione e i tanti errori commessi hanno reso vano ogni sforzo. In questa dialettica tra antico e moderno Vermicino rappresenta sicuramente un poderoso balzo indietro nel tempo. Eravamo nel 1981, ma la scena della tragedia sembrava il set di un film neorealista. Dalle facce delle persone, al modo di procedere dei soccorsi, fino alla generosità degli sforzi profusi, a riguardare oggi quelle immagini sembra di essere proiettati indietro nel tempo, in un’Italia più bambina e più ingenua, che assomigliava molto a quella del primo dopoguerra.
Uno degli aspetti che maggiormente risaltano nel libro, è quello socio-antropologico. Sembra che la lunga diretta da Vermicino sia stata il primo vero reality della televisione italiana.
È una questione complessa, che cerco di affrontare nella seconda parte del libro. Ho tentato di ragionare sul luogo comune che individua in Vermicino il primo reality show della tv italiana. Erano tempi in cui anche la televisione era più semplice e ingenua. Anche per questo quella diretta ha avuto un effetto così dirompente su tutta la nazione. Ma credo che allora la partecipazione emotiva del pubblico alla tragedia di Alfredino sia stata autentica e sincera. Il voyeurismo psicologico che contraddistingue tanta televisione di oggi, lì non c’era, o quanto meno era presente in una forma assolutamente primordiale e abbozzata. Resta il fatto che quella diretta tv è stato il primo momento in cui un’emozione – un’emozione prima di speranza e poi tragica – ha catturato l’attenzione di milioni e milioni di spettatori. Non era un reality show, era una diretta giornalistica, o almeno così era nata. Ma certo da allora è stato chiaro per tutti, specie per chi faceva televisione, che le emozioni, le emozioni prese dal vero, potevano essere un formidabile materiale narrativo e di spettacolo.
In RAI si rendevano conto della portata mediatica di quanto stava accadendo?
No. Non subito, perlomeno. La diretta è nata come racconto giornalistico del salvataggio di un bambino caduto in un pozzo. Nonostante le difficoltà fossero chiare fin dall’inizio, tutti erano convinti (soccorritori, giornalisti, parenti e amici, spettatori) che Alfredino sarebbe stato salvato. Fin quasi alle ultime ore l’Italia intera era incollata davanti allo schermo tv solo in attesa di quello. Quando si è capito che la situazione stava volgendo verso la tragedia era ormai troppo tardi per staccare la spina e spegnere la telecamera (l’unica telecamera
Rai presente a Vermicino). Così il gioioso racconto del salvataggio di un bambino si è trasformato nella lugubre cronaca di una morte in diretta. Ma a quel punto non era possibile fare altro. Se la Rai avesse interrotto la diretta ci sarebbe stata una sollevazione popolare e gli studi di via Teulada sarebbero stati presi d’assalto come nemmeno il Palazzo d’inverno nella Russia del 1917.
Come ha vissuto quei giorni Massimo Gamba?
Ero uno studente universitario con molte curiosità per il mondo e poco interesse per la televisione. Un po’ presuntuosamente – io come tanti altri ragazzi di allora – la consideravamo un mezzo di comunicazione troppo rozzo, primitivo, popolare per essere degno della nostra attenzione. Chissà, forse avevamo anche ragione. Ma quando vidi le prime immagini della diretta tv, il pomeriggio di venerdì 12 giugno, mi sedetti sulla poltrona di casa e mi rialzai solo alle sette della mattina successiva, quando era chiaro a tutti che ormai Alfredino era morto.
Il terremoto dell’Irpinia appena pochi mesi prima, lo scandalo della P2 e la conseguente crisi del governo Forlani, il maxi processo contro le Brigate Rosse a Torino, il crack del Banco Ambrosiano, l’attentato a Giovanni Paolo II: il libro evidenzia le incredibili concomitanze che si incrociarono con la vicenda di Alfredo Rampi.
Era un periodo molto difficile per la nostra vita pubblica. Nel libro sostengo che in Italia i poteri occulti hanno scritto più pagine di storia di quante ne abbiano scritte quelli palesi. Se questo è vero in generale lo è a maggior ragione per quegli anni, in cui si concentrano molti tra i fatti più drammatici e inquietanti della nostra storia repubblicana. Ecco perché risulta ancora oggi straordinario e sorprendente come la vicenda di Alfredino, grazie alla diretta televisiva, sia riuscita a oscurare, a mettere in ombra notizie di così grande rilevanza. Eppure, in quei tre giorni in cui si è consumata la tragedia, per ogni italiano non esisteva altro che Vermicino, il pozzo artesiano e quel bambino che stava lì, imprigionato nella terra, che resisteva e che doveva essere tirato fuori.
La sua penna di cronista si è mossa con grande rispetto nei confronti di Franca Rampi, la madre di Alfredo. Una figura da riscattare?
Non credo che Franca Rampi debba essere riscattata da nulla. Tanto meno oggi. Durante quei giorni e in quelli successivi la grande rabbia popolare e la frustrazione collettiva per l’assurda morte di Alfredino si erano scatenate anche contro di lei. In maniera folle, crudele e ingiusta. Ma Franca era solo una donna che aveva vissuto una tragedia indicibile, la lenta agonia e la morte del proprio figlio. Il suo carattere forte, la sua determinazione in quelle ore, l’avevano fatta diventare – suo malgrado e malgrado tutti – una sorta di eroina, una “madre coraggio” che era entrata nelle case di tutti gli italiani e li aveva conquistati e commossi.
Al di là delle sentenze pronunciate in tribunale, molti di coloro che ebbero delle responsabilità nella morte di Alfredino hanno poi avuto vita breve.
È quella che ho chiamato “la maledizione di Vermicino”. Alfredino è caduto in un pozzo artesiano, mal custodito, all’interno di un cantiere abusivo. Ed è vero che negli anni successivi tutti quelli che avevano lavorato in quel cantiere sono morti. Alcuni addirittura in circostanze tragiche o misteriose. Anche chi, come me, è molto lontano da qualsiasi forma di fatalismo e di superstizione, in alcuni casi non può fare altro che prendere atto di come certe storie sembrino scritte da uno sceneggiatore supremo.
Nella sezione finale del libro, lei parla di “tragedia rimossa” distinguendo tra coscienza collettiva e ricordo individuale.
L’ho scritta alla fine, ma è la prima cosa che mi ha colpito nel mio lavoro di ricerca. Il ricordo individuale, a quasi trent’anni di distanza, è ancora estremamente vivo, procura emozioni, fa piangere, come se la tragedia fosse avvenuta ieri. Almeno per tutti quelli che hanno l’età per aver vissuto la vicenda. Chiunque, alla sola parola “Vermicino”, o “Alfredino”, torna con la mente a quei giorni. E si commuove, o quanto meno viene assalito da un profondo senso di tristezza. Ma a tutto questo si è accompagnata, negli anni successivi al 1981, una profonda rimozione sociale di quell’evento, che non è mai entrato veramente a far parte della coscienza collettiva del nostro Paese, non è mai riuscito a diventare quel patrimonio condiviso che rende un episodio di rilievo un fatto storico per un’intera nazione. Su Vermicino non è stato elaborato e scritto quasi nulla, non è una vicenda passata al setaccio dell’analisi storica, sociologica, sezionata e studiata da intellettuali di diversa specie e natura. Niente di tutto questo, a dimostrazione che quell’evento non è stato ancora metabolizzato dalla società civile. E io non ricordo niente che sia così fortemente presente nei ricordi e nelle coscienze individuali e così assente nella memoria collettiva.
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