Il commissario Ricciardi, ovvero una questione di stile

Presentato a Torino il nuovo romanzo del ciclo ideato da Maurizio de Giovanni

di Anna Petrazzuolo

 

 

Controcorrente, schivando mode e condizionamenti. Ha cominciato così Maurizio de Giovanni, solo qualche anno fa scrittore esordiente e oggi uno degli autori di punta del catalogo Fandango Libri. Il suo commissario Ricciardi, protagonista di un ciclo narrativo ispirato alle quattro stagioni, è la prova di come sia possibile scrivere un giallo senza tuttavia cadere nei cliché della letteratura di genere. Questa autonomia, che abbiamo imparato a riconoscere leggendo Il senso del dolore La condanna del sangue, entrambi già tradotti in Francia e Germania, trova conferma ne Il posto di ognuno, terzo episodio che ha convinto persino l’esigente platea della Fiera del Libro di Torino.

Nella poetica che sorregge Ricciardi (sopra, nella caratterizzazione pittorica di Gianluigi Toccafondo), si riaffaccia la primaria questione del cosa e del come. Una volta deciso di raccontare il delitto, de Giovanni ha dovuto fare delle scelte. I modelli più recenti gli proponevano un tipo di romanzo poliziesco in cui indagini computerizzate e sofisticazioni tecnologiche rubano la scena ai personaggi in carne e ossa appesantendo la trama e, nel contempo, svuotandola. Rispetto a questa produzione, de Giovanni compie un balzo all’indietro, una sorta di ritorno alle origini per reinventare il giallo. Nei suoi libri spariscono le architetture urbane caotiche, le masse anonime, gli ingorghi di smog e clacson, i fast food, le accelerazioni di tempo e spazio. Una semplicità di gusto rétro si afferma come tratto caratteristico di una narrazione che finalmente rimette al centro l’uomo, e che dell’uomo con le sue debolezze fa la misura di tutte le cose. Anche del delitto: «La fame e l’amore sono all’origine di ogni infamia, in tutte le forme che possono assumere: orgoglio, potere, invidia, gelosia. Sempre e comunque, la fame e l’amore». Ricciardi ne è convinto. Ha le carte in regola, lui, per teorizzare sulla natura umana, lui che è uomo autentico, lui che vive in un continuo faccia a faccia con il dolore poiché non gli è data la possibilità di stornare lo sguardo.

 

 

Ambientando le storie nel passato, de Giovanni mette in salvo il lettore allontanandolo dal crimine quasi a volerlo rassicurare. Questa generosità risalta a più livelli. Non vi è traccia qui di quella prosa carnivora che non dà tregua pur di compiacere il narcisismo dell’autore. Allo stesso modo sono assenti le espressioni pirotecniche e le frasi a effetto che infarciscono tanta letteratura contemporanea. Proprio sul piano del linguaggio, anzi, la scrittura di de Giovanni evidenzia uno dei suoi aspetti più originali. Perché accanto alle parole che per statuto rientrano in un romanzo giallo (delitto, morte, sangue), precipitano nel testo lemmi tradizionalmente estranei al genere poliziesco: anima, solitudine, amore, Dio, cuore, lacrime. E dolore, parola chiave, quella che porta a compimento il processo di ri-umanizzazione. Raccontare il delitto diventa, così, una questione di stile. Di più, una lezione.    


 

Foto di Maria Teresa Gargiulo

 

 

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