Il Perelà 2010 premia "L'ipotetica assenza delle ombre"
Intervista a Massimo Padua, autore del romanzo che si aggiudica la seconda edizione del nostro concorso letterario 256 pagine di atmosfere noir per raccontare la parte oscura che ciascuno nasconde dentro di sé. Un lascito inatteso e una serie di ritratti inquietanti sgrovigliano una trama senza sbavature e con molti brividi. Ne parliamo con l’autore Massimo Padua. Cominciamo dal titolo del romanzo. Sembra contenere un’enunciazione teorica: è così?
Esattamente. Devo ammettere che, secondo il mio parere, il titolo ha una valenza oserei dire fondamentale per un romanzo. Anche nei miei lavori precedenti (La luce blu delle margherite e L’eco delle conchiglie di vetro) ho voluto che i titoli fossero evocativi, che rimandassero a grandi linee al senso più profondo della storia che ho inteso narrare. Nel caso de L’ipotetica assenza delle ombre, titolo nato ancor prima del romanzo stesso, i temi che mi interessava esplorare erano i legami familiari e il buio, le zone d’ombra che ognuno di noi cova al proprio interno, spesso senza nemmeno rendersene conto. Solo in situazioni estreme e se la nostra persona (o chi ci è caro) è messa in seria difficoltà, questo lato per così dire nascosto si manifesta lasciando sgomenti noi stessi e gli altri. Ora, è chiaro che il testo che ho scritto è una storia, diciamo così, di puro intrattenimento, e di conseguenza ho portato all’eccesso certe situazioni. Mi sono divertito moltissimo a descrivere questa sorta di viaggio all’Inferno del mio protagonista, un personaggio che ho molto amato e nel quale, entro certi limiti, mi sono riconosciuto. Pensa che, nel descrivere l’inquietante casa che Marco riceve come lascito dal signor Newman, ho preso spunto proprio dalla mia abitazione. Un modo come un altro per “muovermi” con maggior dimestichezza non solo nei meandri della mente dei protagonisti, ma addirittura nei loro spazi. La frase di Nietzsche posta come epigrafe intende dare un orientamento ai lettori?
Ho trascorso molto tempo a decidere quale citazione fosse più indicativa, e alla fine mi è tornato in mente il concetto dell’eterno ritorno espresso da Nietzsche. Perfetto per delineare il testo e a tratteggiare, dare indicazione sulle dinamiche che animano le menti di Marco, il giovane scrittore in crisi creativa, e, soprattutto, del signor Newman, che ha “dedicato” (in maniera del tutto ingiustificabile, ben inteso) l’intera esistenza nella spasmodica ricerca e nel folle tentativo di spezzare certe catene che, con ogni probabilità, appartengono solo alla sua fantasia. Marco Berardi, il protagonista, ha in comune con te più di una caratteristica. Nelle storie che scrivi, come gestisci la componente autobiografica?
A essere sincero, quando inizio una nuova storia non penso mai di parlare di me. Ma poi, come credo sia inevitabile per qualsiasi artista, quale che sia la forma espressiva scelta, una parte di noi stessi si insinua sempre. A volte può avere il sopravvento (come nel caso del mio primo romanzo, La luce blu delle margherite, fortemente autobiografico), altre rimane relegata in un angolo, dal quale tende a fare capolino e a “inquinare” la storia che si sta trattando. In ogni caso, ho imparato a non preoccuparmene troppo, anche perché, in fondo, è perfino divertente, a lavoro ultimato, andar a scovare quelle parti nelle quali il tuo subconscio si è divertito a mettere a nudo una porzione di te. Attore teatrale, cantante di pianobar, diploma di liceo artistico: scrittore per caso?
Mi piace pensare esattamente il contrario. È vero che, nel corso degli anni, mi è capitato di sperimentare tante strade, percorsi che mi hanno aiutato a diventare quello che sono oggi, ma a un certo punto ho creduto che fosse quasi obbligatorio fermarmi e riflettere su quale fosse davvero la mia inclinazione. Recitare è nato quasi per caso, grazie a una regista che mi ha scelto come interprete di diverse commedie teatrali: un’esperienza meravigliosa, ma davvero troppo impegnativa. Per quanto riguarda il canto, è una passione che mi porto dietro da sempre e che mi ha dato diverse soddisfazioni. Ma l’unica cosa che seriamente non ho mai smesso di fare è leggere. La conseguenza è stata che nella mia mente, fin da bambino, è scattato qualcosa che non riesco a fronteggiare, se non scrivendo. E cioè il continuo partorire storie e personaggi. A volte non trovano sbocco e restano come piccoli pesci incastrati nella rete e ignorati per sempre. Altre, fortunatamente, prendono corpo e riescono a convincermi a dedicare loro buona parte del mio tempo. Non so se posso definirmi propriamente uno scrittore, ma certo è che non smetterò mai di scrivere, a prescindere dalle eventuali pubblicazioni. Quale metodo segui nella stesura di un testo?
In realtà, non ho un vero e proprio metodo. Ogni storia richiede dinamiche differenti. A volte una trama nasce da una singola idea, da una suggestione che, una volta ascoltata, mi accompagna quasi senza che me ne accorga verso un finale che intravvedo soltanto dopo la prima metà. Altre volte, provo ad abbozzare una sorta di scaletta, ma inevitabilmente sono i personaggi a trascinarti altrove. Quando questo succede mi ritrovo a scoprire anche io quello che succederà semplicemente scrivendo. Assoggettarsi alla storia mi sembra, al momento, la strada più plausibile da intraprendere. O almeno quella più divertente per lo scrittore. Se scrivessi una storia che conosco fino alla fine non solo mi annoierebbe, ma mi farebbe sentire come uno scolaretto davanti al tema assegnatogli. Però, è anche vero che, in questo modo, tutto risulta più semplice e la stesura non può celare insidie. Per il momento, diciamo che preferisco farmi trascinare e sorprendere. Come nascono i tuoi personaggi?
Ecco, in questo caso il discorso è molto differente. Se, come me, si decide di non delineare troppo la trama dal principio, è pur vero che è necessario conoscere molto bene i personaggi dai quali intendi farti “usare”. Una volta che scelgo un personaggio, cerco sempre di immaginarlo in un contesto particolare. Molto utile è anche creargli un passato, una famiglia, degli amici, qualche esperienza del suo vissuto che lo abbia condotto a diventare quello che è. In questo modo, a mio parere, i protagonisti sono più veri, più sfaccettati, più convincenti e, di conseguenza, intriganti. Solo a quel punto è possibile lasciarsi andare e scrivere con maggiore trasporto. Daresti una definizione del tuo stile?
Non saprei dare una definizione al mio stile, soprattutto perché è il genere di romanzo che si sta scrivendo a dettare le regole. E lo stile non può che adeguarsi alle esigenze della narrazione. Forse, proprio con L’ipotetica assenza delle ombre, ho affrontato una commistione di stili e questo perché era la storia stessa, densa di eventi diversi e di personaggi ricchi di sfaccettature e inclini a cambiamenti anche importanti, a richiederlo. Hai dei modelli di riferimento?
Ogni volta che mi viene posta questa domanda, il mio pensiero corre immediatamente a Tabucchi. Leggere un suo libro è inoltrarsi in un mondo dal quale è quasi impossibile staccarsi. Ma non posso non citare Agota Kristof. O Nick Hornby. Come vedi, autori molto diversi, con caratteristiche e stili differenti. Credo fermamente che leggere autori che, in fondo, non abbiano nulla a che vedere l’uno con l’altro, possa arricchire e suggerire nuovi sviluppi utili non solo alla stesura di un proprio romanzo, ma anche, più in generale, ad ampliare i nostri orizzonti. L’approccio con l’editoria, per un esordiente, è spesso deludente. Il tuo com’è stato?
Io ho sempre avuto il terrore degli editori. Per anni ho scritto molto senza che trovassi la forza di propormi a una casa editrice. Poi, nel 2005, ho avuto la fortuna di vincere il Premio Opera Prima Città di Ravenna con il romanzo La luce blu delle margherite, allora inedito, e così la Fernandel me lo ha pubblicato. Il libro ha avuto un buon riscontro di vendite, tanto che nel 2010 è uscita una nuova edizione. Sicuramente questa esperienza è stata molto importante, per me, al punto che, a poco a poco, ho deciso di combattere contro la mia innata timidezza e di affrontare il mondo editoriale con maggiore fiducia. E per il momento non mi posso certo lamentare... Un consiglio ai giovani scrittori.
Mi dispiace dire questa cosa, ma ho riscontrato, specie negli ultimi tempi, una certa arroganza in buona parte degli aspiranti autori e una scarsa attitudine a mettersi in discussione. Atteggiamenti, a mio parere, assolutamente sbagliati e dannosi all’artista stesso. Quello che posso consigliare è di avere maggiore umiltà, perché solo così si è propensi a maturare e a crescere sempre di più. Il tuo prossimo libro?
Sto lavorando a Nove passi vermiglio, un romanzo che spero di riuscire a terminare in un paio di mesi. Si tratta di una storia ancora una volta molto cupa, ricca di misteri e colpi di scena, dove i legami familiari celano insidie spesso insospettabili e il lato onirico rischia di divenire più concreto della realtà stessa. Inoltre sto mettendo a punto una raccolta di racconti scritti nel corso degli anni, molti dei quali editi in varie antologie, che mi piacerebbe vedere pubblicati in un unico volume. Link > www.massimopadua.it | www.vorasedizioni.it
Per leggere le prime pagine del libro, clicca qui.
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