Menzione Speciale al romanzo
Bolognese, laureato in Lettere e diplomato al Conservatorio, Fabio Ognibene è l'autore del libro che la Giuria del Perelà ha segnalato al pubblico dei lettori di Anna Petrazzuolo
La sua formazione poggia su due cardini, la musica e la letteratura. Li ha strutturati come percorsi autonomi o ha immaginato dei punti di intersezione?
Sono stati percorsi autonomi e assolutamente indipendenti. La musica per me, oggi, è una passione, una professione e una fonte di piacere quasi carnale. La letteratura, al contrario, non è né una passione né una professione né una fonte di piacere. A dire la verità non saprei nemmeno definirla in maniera precisa: posso solamente, e con una certa timidezza, dire che spesso la identifico con la vita stessa, con l’amore, con la morte, cioè con cose delle quali non so nulla, ma che hanno tutte un denominatore comune: vengono scritte su lastre di una sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro.
Molti dei suoi personaggi sono caratterizzati da un’inquietudine che li pone in una perenne condizione in progress: quanto incide questa ricerca interiore sullo sviluppo della trama?
Potrei anche dire che questa “inquietudine” è la trama stessa. Il concetto anglosassone di plot (che oggi è, a quanto pare, l’elemento più importante della narrativa di intrattenimento, secondo la definizione di Wallace) nella mia scrittura è costituito dall’animo dell’uomo, dai labirinti che percorre il sangue nella sua incredibile foga, e penso che mai nessun detective o commissario arriverà a risolvere un enigma del genere. I miei libri sono thriller apparentemente senza soluzione, gialli dove c’è l’assassinio ma non esiste l’assassino. Oppure: tutti sono colpevoli. Inoltre, a dire la verità, non penso che sia una ricerca interiore: semplicemente permetto al lettore di vedere l’“interno”; l’onere della ricerca spetta a lui.
Veniamo al protagonista di Ancora domani, il Prode. Di lui viene fornito il soprannome mentre nulla si sa dei dettagli anagrafici: scelta narrativa o scelta di stile?
Be’, prima di tutto devo sottolineare il fatto che non si tratta di una scelta. Se il protagonista non si fosse chiamato il Prode, semplicemente il libro non sarebbe esistito. Tutto il tentativo di composizione dell’opera sarebbe fallito e il manoscritto, non concluso, verosimilmente sarebbe finito nella spazzatura. Da dove nasce questa imposizione, e come abbia fatto a investirmi durante la stesura del romanzo, io sinceramente non lo so. Non amo indagare dentro ai pozzi dell’inconscio di cui si nutre la mia creatività. Considerato post factum, l’identificazione, di cui si è parlato, del protagonista, è funzionale sia dal punto di vista narrativo sia da quello dello stile.
La sua vicenda, così disordinata e tuttavia ineluttabile, che tipo di reazione suscita nei lettori?
In alcuni ha creato addirittura disagio e frustrazione. Hanno interpretato il comportamento del personaggio come dettato da una sorta di nichilismo, o da una certa indifferenza moraviana; hanno visto in lui una irrisolutezza colpevole, forse una senilità alla Svevo; una irritante mancanza di volontà, di decisionismo e un desiderio indomato di piangersi addosso. Non è così. In tutto il romanzo non c’è un solo momento in cui sorprendiamo il protagonista nell’atto di compiangersi. Il Prode ha urtato, credo, in maniera troppo sensibile parti delicate di alcuni lettori. Fa così male, leggere un mio libro? E attraverso esso, a quali complessi o nervi scoperti è possibile accedere?
Un tratto distintivo del romanzo è l’alternanza dei concetti di presenza e assenza: vanno intesi in senso filosofico o psicologico?
Vanno intesi in senso filologico. Nietzsche distingueva i lettori in filosofi e filologi, includendo se stesso nella seconda categoria (per intenderci, farò un esempio, citando le prime cose che mi vengono in mente: i Padri della Chiesa erano lettori filosofici, Freud è il padre della filologia moderna!). Assenza e presenza sono condizioni materiali, nel romanzo, non sono trattati dal punto di vista concettuale. Se una cosa non c’è, non c’è. La nostalgia è poi tutto un altro discorso. Ma, ripeto, se una cosa non c’è, non c’è. E se c’è, poi non ci sarà. Non è filosofia, è filologia.
Quanta parte ha la realtà nelle sue invenzioni letterarie?
Quello che scrivo è tutto vero. Non scrivo fiction (non è una critica alla fiction, naturalmente, che ha i suoi pregi, e molti). È tutto vero nel senso lato del termine, come è tutto vero che Dante (senza confronti blasfemi, ovviamente) è sceso realmente all’inferno, che ha toccato davvero il paradiso e che la sua non è assolutamente un’opera di fantasia.
Quali sono i suoi autori di riferimento?
Sono troppi e sarebbe un elenco noioso. Ora sto leggendo l’ultimo libro di David Foster Wallace, uscito postumo.
Qualche anticipazione sul suo prossimo libro?
Il mio prossimo libro, in realtà, è uscito proprio in questi giorni e si intitola Quello che rimane, edito da Akkuaria. È costituito da una serie di racconti brevi e lo stile è apparentemente diverso da quello utilizzato per Ancora domani. Se è vero che ogni autore mantiene comunque e sempre un’impronta originaria immediatamente riconoscibile, è altrettanto vero che le cose che cambiano intorno a lui e quello che matura dentro di lui sono elementi, oltre che determinanti per la propria espressione, imprevedibili e solo in parte raggiungibili attraverso un’analisi razionale.
Grazie.
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