La Tempesta di Sasą

Faccia a faccia con Salvatore Striano e il suo singolare percorso dalla galera alla ribalta

 

 di Anna Petrazzuolo

 

«A che cosa serve questo bene immateriale che è la letteratura?»

La domanda è tutt’altro che banale, anzi a me sembra addirittura pungente, una provocazione in piena regola. Porta la firma di Umberto Eco e fa parte di una raccolta di scritti che si propongono di spiegare quali siano le funzioni dei «testi che l’umanità ha prodotto e produce non per fini pratici ma piuttosto gratia sui, per amore di se stessi - e che si leggono per diletto, elevazione spirituale, allargamento delle conoscenze, magari per puro passatempo, senza che nessuno ci obblighi a farlo». Ben ricordando la sagacia del Professore, non mi sorprende che già questa descrizione contenga in sé una sintesi della risposta al quesito di partenza. O, almeno, alcune delle risposte. Il tema, infatti, si presta a parecchie sfaccettature e interpretazioni, che variano col variare degli interlocutori cui la domanda è rivolta. Si affonda nel relativismo, è vero, ma abbiamo strumenti a sufficienza per poter discernere. Innanzitutto, il criterio della credibilità: vi è maggiore credibilità laddove minore è l’interesse. Quindi, se vogliamo indagare il valore di un testo e le ragioni per cui val la pena leggerlo, non chiediamo all’editore (che mette i libri nel mercato e deve venderli) né all’autore (che si innamora di ciò che scrive). Chiediamo ai lettori. Ho fatto il giro lungo proprio per arrivare qui, ai lettori. A uno in particolare, Salvatore Striano, 44 anni la metà dei quali spesa a ingrossare le fila della criminalità organizzata. Oggi, scontata la sua pena, Salvatore è un uomo nuovo grazie all’esperienza della lettura che il carcere gli ha permesso di fare. Recita e si dedica alla formazione dei ragazzi, specie di quelli cosiddetti a rischio. La Tempesta di Sasà (Chiarelettere) è il docu-libro autobiografico che racconta la sua storia.

 

 

Cominciamo dall’incontro che le ha cambiato la vita: Shakespeare. Cosa ha trovato di tanto potente nelle sue opere?

Più che le trame delle tragedie e delle commedie, mi hanno colpito i suoi personaggi, come lui li disegna, quello “stato amletico” del dubbio e dell’interrogarsi, in cui mi sono riconosciuto subito. Penso al rimorso di Macbeth, ai tormenti di Giulietta e Romeo, e penso a La Tempesta, dove l’umiliazione prevale sull’eliminazione mettendo gli uomini dinanzi ai propri errori e facendoli vergognare. Questa roba, per noi in carcere, è stata veramente forte.


Quali altri autori legge più volentieri?

Leggo prevalentemente letteratura classica: Dante, Pessoa, Merini, Neruda. Loro parlano un linguaggio universale che si adatta a ciascuno di noi e che in questo modo non ci fa sentire mai soli. Leggendoli, trovi sempre qualcosa che appartiene anche a te.


Rispetto ai fatti di cronaca, la sua è una vicenda che va controcorrente. Questo, secondo lei, fa più notizia o più paura?

Non credo di fare paura. I miei colleghi autori usano la fascinazione del crimine, io invece vedo i criminali come degli sfigati che vanno denudati in tutta la loro tristezza e i loro fallimenti. Finché ci saranno personaggi importanti con la penna in mano a disegnare questi esseri tristi come supereroi, si farà fatica a insegnare che di vita criminale si muore. Gomorra, così come tutti gli altri prodotti televisivi simili, è una trappola, la sceneggiatura di Gomorra è una autentica barzelletta, anche se girata in modo eccellente, cinematograficamente encomiabile. I personaggi di Gomorra sono inventati, frutto di fantasia, a partire da come si esprimono. Questi autori che si dicono schierati con l’antimafia, in realtà sporcano i ragazzi, danno loro degli input sbagliati, li danneggiano perché risalire dal linguaggio della fiction, da quelle forme gergali a Shakespeare, è una fatica durissima. Ciò che è grave è la provenienza, l’origine di questo che è un vero e proprio circolo vizioso, che nasce come lotta al crimine ma che poi del crimine diventa complice, della serie “tu spara che io scrivo”, non esiste l’uno senza l’altro. In sostanza, Saviano e quelli come lui fanno come ben descrive il drammaturgo francese Jean Genet ne L’enfant criminel: senza il crimine non ci sarebbero gli artisti, i palcoscenici sarebbero vuoti, i quadri resterebbero delle tele bianche. Io invece sto dall’altra parte, faccio l’artista socialmente utile, mi servo dei grandi per parlare ai giovani e spiegare che il crimine è la più grande truffa umana.


Stando a quello che dice il libro, lei rende grazie a Shakespeare promettendo di dedicargli dieci anni della sua vita.

I dieci anni scadranno il prossimo ottobre, ma io mi sono legato a lui per sempre. Shakespeare mi ha messo un semaforo nell’anima, mi ha dato dei tempi, dei modi e un linguaggio nuovo, tutto ciò che mi serve per comunicare. Senza, un uomo non può comunicare nulla.


C’è un ruolo in particolare che le piacerebbe interpretare?

A 44 anni, sono molti i personaggi shakespeariani che spero di interpretare, a cominciare da Macbeth. Poi tra qualche anno, se ancora sarò sui palcoscenici, mi auguro di fare il grande Prospero, ma anche Iago. Tra le cose che ho nella testa, vorrei riscrivere l’Amleto in napoletano e scrivere qualcosa sul tema delle attenuanti generiche, che di solito sono solo per i ricchi.


Quando va nelle scuole a parlare con i ragazzi, che tipo di accoglienza le riservano?

I ragazzi all’inizio sono chiusi come dei ricci in quella timidezza che appartiene al mondo giovanile. Poi ascoltando dalla mia voce dei miei fallimenti, delle mie false partenze, si entra in sintonia e spesso si rimane in contatto. Mi confidano i problemi che vivono, cercano consigli. La stessa cosa accade quando vado nelle carceri: io sono l’esempio di chi, con costanza e con impegno, è riuscito a venirne fuori. Ma non voglio luci per me, voglio andare ad accenderle nelle persone, altrimenti tutto questo non avrebbe senso. Io ho un passato terribile e come personaggio pubblico ho l’obbligo di essere autentico. Cambiando la mia vita, mi sono dato il più bel premio.


Striano, perché si è deciso a raccontare la sua storia?

Perché altrimenti non avrei potuto proseguire con la mia carriera artistica. Mi è andata bene, ho avuto la fortuna di lavorare con bravi maestri e quindi sono diventato un personaggio mediatico. Alle persone che mi ascoltano, non posso nascondere vent'anni della mia vita. Se non li racconto io, lo fanno gli altri ma gli altri non possono farlo come lo faccio io, sarebbero testimoni non veritieri, magari mossi da altre intenzioni, lo farebbero per distruggere o esaltare. Qui però c’è poco da distruggere e da esaltare. Semplicemente sono un ragazzo che, attraverso la letteratura e la cultura, ha capito che non era affatto segnato ma che si doveva ridisegnare. Io ero uno scarabocchio.

 

indietro