Salone Internazionale del libro

Torino, the day after: un bilancio per Lagioia & C. all'indomani dei veleni che hanno turbato l'edizione 2019

 di Anna Petrazzuolo

 

Avete ricevuto anche voi il comunicato di ringraziamento del Salone? Numeri e didascalie. A sentir loro, va tutto bene. Come se il polverone che si è scatenato nei giorni precedenti all'inaugurazione, fosse stato semplicemente una 'roba da social'. Invece, troppe sono le cose che non vanno bene. Non va bene che in una manifestazione che è, di fatto, la più importante in materia di libri in Italia, la direzione artistica e quella commerciale non dialoghino tra loro. Non va bene che la direzione artistica nomini uno staff di consulenti senza fare veramente squadra e rimanendo inerte quando uno di loro decide di ritirarsi su una questione non proprio irrilevante. Non va bene che Altaforte sia stato prima accolto e poi buttato fuori, con le conseguenze legali che ne verranno. L'ascesa di Francesco Polacchi dimostra che, da noi, aprire una casa editrice è un'impresa semplicissima, alla portata praticamente di tutti: non occorre dimostrare di essere istruiti e di avere un piano di produzione autenticamente culturale. Ciascuno di noi può testimoniare che, tra coloro che si fregiano del titolo di 'editore', si annidano:

- quelli a pagamento

- quelli che stampano senza leggere (e nemmeno correggere!)

- quelli che pubblicano senza distribuire

- quelli che non hanno la minima idea di cosa sia e dove stia la Cultura.

 

A molti di questi, il Salone del Libro di Torino apre le porte. "Pecunia non olet", certo. Ma la credibilità, poi, a lungo andare che fine fa? Dobbiamo aspettarci che ogni anno capitino polemiche, defezioni, querele...? Io penso che, in questo suo nuovo corso, il Salone dovrebbe finalmente decidersi a selezionare gli espositori, sceglierli come fa con gli ospiti, sottoporli a una specie di test antidoping per creare una continuità armonica tra chi noleggia uno stand per mettersi in vetrina e chi viene invitato a tenere dibattiti e conferenze: spessore, serietà e onestà dovrebbero essere i valori, la condicio sine qua non per gli uni e per gli altri. Il libro - lo sottolineo - è la più fragile delle opere d'arte ma anche la più ingannevole, perché - a differenza di un quadro o di una scultura - è un oggetto chiuso. Per scoprire, al di là degli ammiccamenti della copertina, cosa ci sia dentro bisogna aprirlo, leggerlo, analizzare il contenuto e la forma, soppesare la bravura delle maestranze che vi hanno messo mano. Insomma, applicarsi e fare fatica. Ma chi si prende la briga di compierla, questa fatica? Non parlo di censura. Parlo di controllo qualità, di dignità di stampa.

 

Produrre libri, di per sé, non significa nulla. Conta produrre libri di valore, libri utili, che siano rappresentativi del nostro tempo e della nostra società, delle nostre speranze e delle nostre paure, ma senza sacrificare la qualità (della lingua italiana, della scrittura, del progetto editoriale). Salvaguardare l'etica del libro, questa è la via per il futuro. 

 

 

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