Giovani Scrittori Crescono

Per l’ultimo degli speciali sulla Giuria del Premio Perelà, diamo la parola a Elena Mearini e Davide Roma, allievi della scuola di scrittura narrativa diretta a Milano da Raul Montanari

 

Attrice e drammaturga, Elena Mearini si presenta con un curriculum che evidenzia la varietà delle sue esperienze artistiche e professionali. Legge Pessoa, Borges, Céline, Vonnegut e Artaud, che ama sia nelle vesti di commediografo che in quelle di poeta. Tra gli autori italiani mette ai primi posti Cristina Campo, Calvino, Scarpa e De Luca. Attenta ai disagi sociali e psicologici, non esita a farne materia della propria scrittura.    

Nel suo primo romanzo, 360 gradi di rabbia (Excelsior 1881), ha trattato l’anoressia. La scelta di un tema così forte quali ricadute ha avuto in termini di stile?
L’anoressia è rifiuto di una realtà che viene spinta a forza nella bocca senza tenere in considerazione le urgenze, i gusti e le volontà del palato. Da questo ingoio costretto nasce la protesta di un corpo che s’imbavaglia la gola assieme ad ogni appetito nei confronti del mondo. La scrittura si pone come riscatto, ogni parola diventa cucchiaio capace di tirarsi appresso il boccone scelto anziché subìto. La frase distingue tutte le briciole buone del reale, quelle percepite come più autentiche, oneste e tenta di salvarle nel segno scritto. Nel raccontare l’anoressia, la parola si è trasformata in cura, in quel “cibo che piace”, che è voluto perché pronto a rispondere all’appello di corpo e spirito. Nel romanzo il linguaggio procede per paratassi, frasi brevi, morsi attenti a selezionare la parte saporita della realtà. Quella che quando ci affondi i denti senti il muscolo del vero, la tensione della vita.


Se dovesse compilare una classifica delle varie arti, dove collocherebbe la letteratura?
Quando la letteratura è aggancio alla verità, quando riesce a irrompere nel reale con un agguato di senso e riesce a restituire voce alle cose zitte, nome a quelle dimenticate e patria a tutte le bellezze esuli che ci stanno attorno, ecco, quando riesce a fare questo, allora credo che meriti il primo posto tra le arti.
Un bilancio della sua collaborazione con la rivista «Vita».
La collaborazione con il settimanale «Vita» mi ha permesso di incontrare e raccontare storie che di solito siedono nelle file ultime del quotidiano, storie che meriterebbero il faro centrale puntato contro per lo straordinario che si portano dentro. È bello scoprire il coraggio più autentico dentro un petto che non si è mai visto appuntare medaglie. Ringrazio «Vita» che conserva e difende tutte le dieci diottrie di uno sguardo rivolto alla dignità dell’uomo, combattendo così la miopia verso il bello dell’esistere.
Perché si è iscritta a una scuola di scrittura?
La scrittura nasce come emergenza, allarme d’anima che vuole scansare il vuoto per toccare l’Altro con una verità intima, una realtà privata messa in figura e condivisa. Partecipare a un corso di scrittura può aiutare a comprendere il “Come” si possa raggiungere questo obiettivo, a patto che si possegga qualcosa da dire e una reale motivazione a farlo. Scrivere richiede impegno di braccia e cuore, è fatica fisica e dispendio di battiti che non ammette risparmio. Ci vuole costanza, dedizione e rispetto per la parola. Raul Montanari me lo ha insegnato con ostinato esempio. E per questo lo ringrazio.

Il testo scelto da Elena si intitola Consolata. Si tratta di un monologo che ha il significato di un urlo di protesta con il quale la protagonista si ribella alla propria condizione di donna sfruttata come moglie e come madre. Il linguaggio performativo, oltre a delimitare il perimetro dell’azione, ha il compito di guidare i fruitori attraverso i vari livelli di disperazione fino alla tragedia che esplode nel finale. Ritmo sincopato, anafora e iperbole sono gli strumenti retorici che connotano lo stile dell’autrice.

Troppo rumore. Spegnete quella radio. Sono seviziata dagli strilli. Accompagna tua sorella in bagno. Senti quanto urla. Falla smettere. Non lo so come. Prendi il succhiotto e ficcaglielo in bocca. Mi seviziano, tutti i giorni. A frustate mi pigliano. Ho le piaghe del martire fin dentro le ossa. Fratture al sistema nervoso. Slogature alla coscienza. Croste alla pazienza. Dico io, ma ci si può ridurre così? [leggi tutto]

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Definito il “wonder boy” della nuova letteratura fantastica, Davide Roma studia Scienze della Comunicazione e scrive sul blog collettivo Il primo amore. Senza rinnegare i classici, li ha sottoposti a rivisitazione esplorando a tutto campo film e telefilm di ultima generazione. Il risultato è un genere che si presenta come un mix e che è già molto quotato tra i lettori. A breve, la sua prima trilogia.  

 

Sta per pubblicare la sua trilogia “Urban Fantasy”: lo considera un punto di arrivo o di partenza?
Ho sempre perseguito un obiettivo alla volta. Il primo era esordire con il mio editore preferito da sempre, e l’ho raggiunto. Adesso attendo con crescente entusiasmo il responso del pubblico. Perciò lo considero un trampolino di lancio, ma salire su quel trampolino ha richiesto grande perseveranza.
La sua specialità è il crossover: in cosa consiste?
Mischiare generi, anche lontani, in apparenza, tra di loro. Ad esempio: il teen drama con il romanzo gotico ottocentesco (Dawson’s Creek con Dracula). L’idea consiste nel riscoprire la magia della narrativa del passato, a mio avviso soffocata dall’eccesso di tecnicismo del Novecento, svecchiandone i motivi stilistici e aggiornandone i contenuti. Senza dimenticare la grande lezione che la cultura bassa può offrire a quella alta: esistono fumetti, come Dylan Dog, o manga, come Saint Seiya (“I cavalieri dello zodiaco”), o film commerciali (come “Il cavaliere oscuro” di Nolan) che mi hanno offerto molta più ispirazione di acclamati mattoni in cui le dimensioni dell’ego dell’autore sono inversamente proporzionali al numero di lettori/spettatori che li hanno letti/visti!  
Lei scrive racconti per la rivista «Confidenze»: sapere in anticipo quali saranno i destinatari condiziona la sua creatività?
In questo caso sì perché una rivista rosa come «Confidenze» ha un pubblico ben preciso, non avvezzo, per usare un eufemismo, ad atmosfere alla Quentin Tarantino o alla Arancia Meccanica! Ma è una stata un’esperienza utile perché ha migliorato quel lato della scrittura che definirei “artigianale”: cioè imparare scrivendo, se necessario, a comando e seguendo le richieste di un committente.
Perché si è iscritto a una scuola di scrittura?
Tiziano Scarpa lesse alcuni miei racconti e riconobbe il mio talento che, però, andava ancora affinato. Così mi consigliò il corso di scrittura di Raul Montanari. Mi iscrissi, e lo frequentai con grande impegno. Fu un eccellente esperienza, anche dal punto di vista umano, perché in Raul e Tiziano ho trovato dei fratelli maggiori più che dei semplici insegnanti, e in molti miei compagni di corso dei veri amici che mi hanno sempre sostenuto durante il percorso che mi ha portato all’Einaudi.
Scene di quotidiana reclusione nel racconto firmato da Davide, Lo scannatoio, cronaca dei riti e dei costumi di una casa circondariale qualsiasi. Attraverso la voce del protagonista, che parla in prima persona, l’autore descrive l’ambiente carcerario senza peli sulla lingua evidenziando le proprie qualità di narratore moderno. La sua è una scrittura cinematografica, prodiga di dettagli finalizzati alla visualizzazione dei contenuti.
La casa circondariale, meglio nota come carcere di massima sicurezza, si estendeva attraverso un ampio spazio disseminato di edifici e campi da gioco.
Appena arrivato, ammanettato e scortato da due carabinieri, notai immediatamente l’altezza del muro di cinta. Erano le due di notte.
Il cancello principale si aprì lasciando entrare la nostra volante. Mi fecero scendere a spintoni. Non opponevo resistenza. Ma mi trattavano come un animale. [
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